Olga Gambari - In\Colore

All’inizio la sensazione è di sprofondare nei colori, nel riverbero ottico creato dalle strisce che avvolgono le pareti della stanza. L’installazione di Francesco Fossati si stende sulla pelle del luogo espositivo, che perde consistenza e diventa meccanismo optical straniante, come se fessure di luce colorata si aprissero e facessero filtrare una dimensione parallela. Lame dipinte che vanno dal blu al verde, dal rosso all’arancione, nelle sette sfumature della rifrazione della luce.

Poi appaiono le tavole dipinte a olio, anse narrative, punti di sosta che costellano le bande colorate. In ognuna si apre una storia minimale, fatta di accenni, porzioni di visioni di architetture. Una pittura essenziale e monocroma, che è al tempo stesso veloce come segno e stesura eppure meditativa e analitica. Tutto il lavoro parte da un archivio fotografico raccolto in giro dall’artista, immagini trovate su riviste così come in internet, che raccontano la dimensione della cosiddetta hippy architecture, quella che comprende strutture abitative edificate con materiali di recupero o ricavate dall’ambiente naturale, bioarchitetture che si inseriscono nella natura con un approccio sia mimetico sia a basso impatto, ecologico. Il monocromo, che interviene su porzioni di quelle immagini estrapolate e stampate su fogli di carta poi trasportati su tavole di legno, fonde insieme elemento umano e naturale, anche se persone non ne appaiono mai direttamente. Sono le architetture a evocarle, a incarnarne l’essenza che le ha progettate e le abita, dichiarando idee e bisogni, quotidianità specifiche e uniche, in opposizione all’edilizia comune che crea spazi abitativi uguali per tutti, dove l’essere umano per forza si omologa, perdendo anche il suo rapporto con l’ambiente. Uno sradicamento che determina alienazione, che interrompe il rapporto vitale tra individuo e natura. Le piccole pitture di Fossati sono visioni lisergiche, che ricordano anche la grafica del videogioco in 3D: linguaggio asciutto e lineare, minimalista come certa scrittura americana, come Raymond Carver, fatta di niente, fatta di tutto. Ma anche in parte pop, legata alle immagini dei media, a un’appropriazione iconografica che, diversamente, fu di Andy Warhol e poi di Gerard Richter, con il suo Atlas, un archivio\atlante enorme, in progress di fotografie trovate e scattate, ritagli di giornali, tavole cromatiche, appunti. E di Richter si ritrova un’eco anche nel segno pittorico, in quell’iperrealismo “sfocato” reso tale sia dal tratto sia dal monocromo, che rende l’immagine visione, allucinazione. Dal colore più pieno e abbagliante della percezione iniziale, si passa a un’inconsapevole visione b\n : accade in una successiva elaborazione mentale, che rarefà e rende l’opera un disegno concettuale. Irreale e reale diventano memoria, emozione, appartenenza a un'altra dimensione.

Francesco Fossati, Hippy Architecture, 2010, installation view at Studio Apeiron

Francesco Fossati, Hippy Architecture, 2010, installation view, wall painting and 37 elements mixed media on plywood


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