Marta Cereda - Studio Visit
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- Pubblicato Martedì, 14 Maggio 2013 09:33
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Articolo pubblicato su ArtsLife.com
È la prima volta che Francesco Fossati (Carate Brianza, 1985) apre le porte del suo studio a un estraneo. «Normalmente lo spazio non è così in ordine. Di solito lavoro tanto, lasciando tutto in giro, poi arrotolo i disegni, metto via tutto e comincio con nuovi lavori». La luce zenitale della mansarda illumina una scrivania ingombra di piccole tavole, che fanno parte di “Hippy Architecture”. «Sono pezzi unici, foto dipinte e applicate su legno. “Hippy Architecture” è un lavoro che riflette sull’idea di pittura unendo due generi diversi, da un lato l’optical degli anni Sessanta e Settanta, dall’altro quella che io definisco di paesaggio, anche se i soggetti sono in realtà delle architetture che identifico come hippie. Si tratta di una categoria molto ampia, che comprende costruzioni che vogliono avere un rapporto con l’ambiente circostante e, in questo modo, diventano pitture di paesaggio. Ci sono case costruite a mano, edifici ecosostenibili, che ho catalogato in un archivio creato da immagini raccolte da internet, riviste e libri. Questo lavoro vuole scardinare il concetto di site specific, essendo infinitamente modulabile e adattabile a contesti diversi, in grado di leggere la pelle dell'edificio.».
In diversi lavori la tecnica pittorica rappresenta una componente importante. Spesso anche se parti da un’immagine fotografica essa viene trasformata.
«Anche se non sempre le opere si concretizzano in pittura però spesso partono da sperimentazioni pittoriche che poi prendono altre strade. In “Update required”, per esempio, ho fatto una mappatura delle targhe commemorative dedicate agli artisti nella città di Milano, ho successivamente preparato le immagini per la stampa e poi ho ridipinto le foto, includendo tutti i segni grafici che normalmente vengono tagliati. Sono entrato in dialogo con questi artisti con un atto materiale, ma ho unito anche mezzi differenti, perché ho scelto di trasformare la tela in uno stendardo appeso a un neon».
Anche le tue ““sculture”” risultano pittoriche.
«Sono un’indagine sulla pittura, attraverso la creazione di opere tridimensionali che hanno senso solo in relazione alle immagini visibili al loro interno. Quando ho iniziato a pensare di voler realizzare un dipinto con il mezzo scultoreo, l’idea era di unire terre di colore diverso, ma mi era venuta in mente un’affermazione di un mio professore che sosteneva ciò non fosse possibile. Effettivamente ci sono grosse limitazioni ed è un processo molto lungo, che ho perfezionato con l’aiuto di un vasaio. Talvolta quando termino un nuovo lavoro chiedo a qualcun altro di realizzarne un esemplare, per riuscire a distaccarmi e non considerarlo come il risultato dell’opera “dell’artista genio”».
Un’altra caratteristica del tuo lavoro è il fatto che, in molti casi, alla base ci sia un archivio. Questo ti consente di lavorare per serie potenziali, perché un lavoro limitato diviene grazie alla catalogazione potenzialmente estendibile?
«Sì, l’archivio è un elemento che si ritrova spesso. Anche in “Sometimes I think about the cities”, un lavoro iniziato nel 2011 che vorrei sviluppare non appena riuscirò a liberare il mio piano di lavoro, avevo creato un archivio di immagini di megalopoli, da cui ho realizzato, tagliandole a strisce verticali e riassemblandole, un nuovo orizzonte piatto per ripensare le città in maniera utopica, scomponendo le foto e creando delle astrazioni, delle geometrie sia sopra che sotto l'orizzonte».
Ai tuoi archivi e ai tuoi procedimenti di catalogazione si associa l’idea di scientificità, limitata però dalla presenza di un criterio di scelta estremamente personale. Questa caratteristica è evidente nel titolo del tuo libro d’artista.
«“Una storia parziale degli artist-run spaces dal 1858 insino a’ tempi nostri” raccoglie la storia di spazi espositivi gestiti da artisti. Si tratta di una storia parziale perché, pur essendo una ricerca molto ampia, ho deciso di non includere troppe realtà, per scarsità di informazioni, per un limitato interesse o perché in un’area geografica che avevo scelto di non trattare. Ho perso di scientificità, aumentando, però, la qualità dell’informazione. Da questo progetto è nato un numero della rivista “E il topo” che ho realizzato autonomamente in cinquanta copie e che ha portato alla rinascita del giornale, dopo sedici anni di inattività. Il primo numero, tra l’altro, è stato sviluppato dalla stessa idea che mi ha condotto a “Update required”: ero fermo con lo scooter a un semaforo di Milano, ho visto una targa dedicata a Filippo Tommaso Marinetti e ho pensato di raccogliere foto di artisti scomparsi negli ultimi sedici anni».
La presenza del tuo sguardo dunque condiziona il risultato, rendendo l’approccio non completamente rigoroso?
«Sì, nei miei lavori, nonostante io cerchi di lavorare in maniera scientifica, inserisco inevitabilmente il mio vissuto. Anche nell’interesse per l’elemento luminoso e per la gamma cromatica presente in molte mie opere unisco una componente scientifica e una emozionale: mi interessa rendere l’esperienza della luce in maniera fisica. In “Hippy Architecture” l’idea di avvolgere le pareti di una stanza con un arcobaleno si lega alla possibilità di sperimentare un’esperienza di percezione cromatica».
I titoli rivelano questa parzialità, questa assenza di pretesa di scientificità, per esempio in “Strumento imperfetto per tracciare arcobaleni”.
«In questo lavoro abbino l’idea del disegno tecnico all’arcobaleno, quindi un elemento effimero a una dimensione scientifica, rendendo tangibile la potenzialità di questo oggetto, in bilico tra la possibilità di utilizzarlo e il non poterlo usare. Vorrei crearne uno per ogni mia mostra personale, aggiungere un esemplare a cadenza irregolare».
Parliamo di “Late Again”. Guardando la serie ho pensato a una riflessione di carattere anti-celebrativo.
«Sono fotografie applicate su dibond, con telaio. È un lavoro sui due modi di usare la fotografia, come stampa o come documentazione di un processo artistico che non lascia residui come la performance. Mostrando nei riflessi sulla superficie della coppa il fotografo, registro un aspetto inutile, viene documentato un atto fotografico, generando così uno scarto a livello linguistico che unisce le due modalità. La tua interpretazione di questo progetto non coincide con i presupposti dell'opera, ma questo non mi disturba, perché l'obiettivo del mio operare è la coincidenza tra forma e significato. Il soggetto diventa un pretesto per parlare di qualcos’altro, voglio fare un lavoro di carattere metalinguistico, esclusivamente sul linguaggio».
Francesco Fossati, Update Required, 2012, vista dell'installazione presso Flash Art Event, Milano, due elementi olio su tela e neon, 170 x 150 cm ognuno, courtesy Galleria Cart, Monza
Update Required [This is the house where in 1905 Filippo Tommaso Marinetti founded the magazine “Poesia”...], 2012, detail, oil on canvas and neon, 150 x 170 x 8 cm
Nicola Cecchelli - Elogio del Trucco
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- Pubblicato Martedì, 14 Maggio 2013 08:53
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“Chi mai oserebbe attribuire all’arte la sterile funzione di imitare la natura?
Il trucco non ha da nascondersi, né evitare di farsi percepire:
al contrario, può esibirsi se non proprio con affettazione, con una sorta di candore.”i
Charles Baudelaire
Pensando ai White paintings di Robert Rauschenberg risulta di particolare interesse la lettura di Leo Castelli, riportata da Alan Jones nella biografia del gallerista italoamericano: “I dipinti bianchi di Rauschenberg, con l’ombra dei visitatori che passano di fronte alla tela, rappresentano, in un modo curioso, le prime opere performative di un artista americano.”ii John Cage, che s’inspirò proprio a queste opere per concepire la storica composizione per pianoforte 4’33’’, definì i White Paintings superfici che “diventano aeroporti per le particelle di polvere e le ombre che sono presenti nell’ambiente.”iii
I dipinti di Rauschenberg non erano esempi di pittura “tradizionale” per il loro essere monocromatici, aspetto certamente fondante, ma non principale per comprendere la loro unicità. Le opere di Rauschenberg furono rivoluzionarie perché cercavano la pittura non nel pennello dell’artista, ma nello spaziotempo adibito a ospitarle, particolare dimensione che, grazie alle sue continue variazioni, rendeva l’atto di dipingere un processo interminabile.
A pochi anni di distanza, dall’altra parte dell’oceano, Piero Manzoni iniziava il ciclo degli Achromes. In questo caso l’aspetto più interessante fu l’uso di materiali non artistici finalizzati a mantenere suggestioni pittoriche in dipinti privati della caratteristica che li identifica in quanto tali e cioè la pittura stessa: di tela in tela il gesso e il caolino iniziano a lasciare spazio a feltro, polistirolo, pietre, uova e ad altri elementi che avevano come unico comun denominatore il colore bianco. In un saggio coevo alla realizzazione delle opereiv, Manzoni si rivolge a tutti quei pittori che“ si pongono a tutt'oggi di fronte al quadro come se questo fosse una superficie da riempire di colori e di forme, secondo un gusto più o meno apprezzabile, più o meno orecchiato [...] e continuano in questa ginnastica finché non hanno riempito il quadro, coperta la tela: il quadro è finito: una superficie d'illimitate possibilità è ora ridotta ad una specie di recipiente in cui sono forzati e compressi colori innaturali, significati artificiali.”v
Ho citato questi due cicli di opere perché sono stati i primi ricordi suscitatimi da Manifatture l’ultimo progetto di Francesco Fossati. Trovo analogie, infatti, tra l’installazione del giovane artista brianzolo e le opere menzionate in apertura del testo. Proprio come in Rauschenberg la pittura di Fossati, allontanandosi dal classico e riquadrato confine della tela, trova nello spaziotempo il luogo dove dispiegarsi ai sensi, avvalendosi, qui la memoria corre a Manzoni, di elementi extrapittorici che vanno a sostituire colori e pennelli.
Certo è che Manifatture non deve esser considerato un omaggio a questi due grandi artisti, così come ad altri che avremmo potuto richiamare, poiché l’intervento s’instaura consapevolmente nel tempo della propria contemporaneità: in un’epoca dove la pratica pittorica, in cerca di un nuovo status identitario, perde inevitabilmente la sua nostalgica autorità non essendo più, per riprendere le parole di Angela Vettese, “una musa unica, assoluta e autoreferenziale, ma lingua percorribile accanto alle altre."vi
Consapevole del proprio tempo, costellato tanto di “reazionari” ritorni all’ordine quanto di tentativi “progressisti” di ampliare la disciplina in una sorta di superamento della stessa, l’installazione di Fossati va letta come una piccola panoramica attorno a tale pratica contemplata sia nella sua accezione “classica” e anacronistica di mimesis sia in quella meta-artistica di derivazione modernista: la pittura in quanto illusione, le mirabili finzioni di Leonardo da Vinci, la pittura come oggetto specifico e la sua relazione con lo spazio circostante e infine, ma non ultimo, la pittura come desiderio che svela tutta la sua carica di appetibilità nei confronti del fruitore.
Lo stesso titolo del progetto è un ottimo punto di partenza per la nostra analisi: nella lingua italiana il termine manifattura, sia che esso intenda un oggetto lavorato a mano sia con l’ausilio di macchinari, definisce il frutto di un qualsivoglia operare umano.
Questa definizione, seppur approssimativa, può essere applicata alla maggior parte dei dipinti di ieri e di oggi.
Certo è che sin dall’entrata nello spazio espositivo trovare una giustificazione per l’impiego di tale vocabolo diventa difficile. Installata dal margine superiore della porta d’ingresso sino quasi a terra, vi è una parrucca femminile che ci invita a entrare per la sua piacevolezza ma allo stesso tempo preclude la soglia. Una volta penetrata tale “barriera” troviamo vari elementi che dislocati accuratamente all’interno dello spazio compongono l’installazione.
Il primo, sistemato sulla sinistra rispetto all’entrata, è un dittico di tele vergini abbondantemente acconciate da una folta chioma rossa. La voluminosità della capigliatura è accentuata ancor più da un ventilatore che con il suo roteare muove delicatamente le singole ciocche.
La direzione dello spostamento d’aria sposta, peraltro, anche il nostro sguardo sino alla parete sulla destra che accoglie una serie di tre identiche tele anch’esse acconciate e disposte arbitrariamente sulla parete. Qui le chiome pendono rigorosamente verso il basso fermandosi tutte alla medesima altezza dal suolo e andando così a disegnare una linea continua tra le loro estremità.
L’installazione, già dal titolo, è la messa in scena di una finzione.
L’esplicita presentazione di un’illusione dove i ruoli s’invertono: i segni di un’assenza, quella della materia pittorica tradizionale, divengono i segni della presenza del trucco, qui non usato per mascherare ma per esibire, il tutto giocato in un continuo cortocircuito tra obbiettivi discostanti. Il trucco nell’accezione d’illusoria finzione è trasfigurato giacché esibito da una presenza che esplica la reale natura di se stessa: nessuna delle parrucche riuscirebbe a illudere neanche per un momento, poiché, oltre alla palese natura di travestimenti qualitativamente approssimativi, il loro volume non riesce, se non in minima parte, a mascherare, ricoprendole, le bianche tele sottostanti. La parrucca-trucco, o se preferite il trucco-pittura, è resa volutamente incapace di nascondere, di farsi finzione verosimilmente accettabile.
Le fittizie acconciature, tuttavia, oltre a mostrarsi e svelarsi in quanto tali, mostrano e svelano contemporaneamente i limiti tradizionali del quadro propagandosi al di fuori di essi.
La volontà di considerare la pittura come installazione nello spazio e i suoi singoli tratti compositivi come oggetti reali è uno degli aspetti principali dell’intervento. Manifatture sottostà alla concezione di un progetto elaborato per parti progettate esclusivamente per quel particolare spazio espositivo, un organismo dai componenti inscindibili tra loro pena la perdita di quella particolare sensazione: un unico grande dipinto che avendo come limite la sede espositiva stessa, non più quindi i consueti bordi della tela, pretende di far entrare il fruitore materialmente nella restrizione in cui l’opera vive. “L’installazione trasforma lo spazio reale della galleria [...] nella matrice dell’oggetto assemblato, per cui lo spazio, in quanto scena su cui appare l’oggetto, diventa essenziale per l’esistenza stessa di quest’ultimo”.vii
Tutto questo rende Manifatture una specie di gioco di prestigio teso prima a smaterializzare la pittura e successivamente a restituircene qualcosa.
Fossati pur “attaccando” la musa nel profondo vuole però lasciarne intatta l’incantevole bellezza. Non si tratta qui, tuttavia, di una bellezza che potrebbe esser facilmente fraintesa con un tentativo di appagante pratica decorativa, di mero esercizio piacevole agli occhi.
L’autore fingendo non vuole creare ingannevoli illusioni ma mettere in scena il desiderio stesso, precisamente nell’attimo in cui quest’ultimo è proiettato dall’opera al di fuori di sé per attrarre il fruitore.
Manifatture è un elogio del trucco, citando nuovamente le parole di Charles Baudelaire che vide nell’acconciare, cioè nella cosmesi in generale, non qualcosa da rifiutare a priori come mendace e debilitante per l’arte “vera”, nel senso illuminista dell’espressione, ma qualcosa che la arricchisce e la onora. Fossati lontano dal firmare l’ennesimo epitaffio per la disciplina pittorica, rivolge alla di lei mano i suoi ossequi.
Sono partito citando Baudelaire e voglio concludere riportando un suo breve passo, differenziandolo, tuttavia, dall’originale. Ho sostituito, infatti, la parola donna con pittura, come se questa vetusta signora detenesse capacità e volontà proprie, così come la parola natura è stata trasformata in tradizione: “La pittura è proprio nel suo diritto e anzi compie una sorta di dovere quando si studia di apparire magica e soprannaturale: è necessario che stupisca e incanti; idolo deve dorarsi per essere adorata. La pittura perciò deve prendere a prestito da tutte le arti i mezzi di elevarsi al di sopra della tradizione per meglio soggiogare i cuori e colpire gli spiriti”.viii
i Charles Baudelaire, “Le peintre de la vie moderne”, in Figaro, 26 e 29 novembre, 3 dicembre, 1863, trad. it.: Charles Baudelaire, “Il pittore della vita moderna”, in Scritti sull’arte, Einaudi Editore, Torino, 2004, p. 308.
ii Alan Jones, Leo Castelli. The italian who invented art in America, © by Alan Jones, 2007, trad. it.: Alan Jones, Leo Castelli. L’italiano che inventò l’arte in America, Castelvecchi Editore, Roma, 2007, p. 124.
iii John Cage, “On Rauschenberg, artist, and his work”, in Silence: lectures and writings by John Cage, Wesleyan University Press, Hanover, 1961, trad. it.: John Cage, “Su Rauschenberg, artista, e il suo lavoro”, in Renato Pedio (a cura di), Silenzio: Antologia da Silence a A year from Monday, Feltrinelli Editore, Milano, 1971, p. 124.
iv Il testo di Manzoni fu pubblicato originariamente sul secondo numero della rivista Azimuth (1960).
v Piero Manzoni, “Libera dimensione”, in Elio Grazioli - Piero Manzoni, in appendice tutti gli scritti dell’artista, Bollati Boringhieri Editore, Torino, 2007, p. 183.
vi Angela Vettese, “Realismo intimo, una pittura ribelle”, in Patricia Ellis e Gianni Romano (a cura di), Intervista con la pittura, Postmedia Editore, Milano, 2003, p. 7.
viii Charles Baudelaire, op. cit., p. 307.
Francesco Fossati, Manifatture, 2009, installation view at Mon Ego Contemporary, Como, synthetic hair, canvases and fan, variable dimensions
Giorgio Viganò - Una conversazione con Francesco Fossati
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- Pubblicato Lunedì, 13 Maggio 2013 09:05
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Giorgio Viganò: Una considerazione preliminare : Arturo Martini, nel secolo scorso, aveva preconizzato pessimisticamente “ La scultura? Una lingua morta”. Mai “proclama” è stato più clamorosamente smentito se solo pensiamo agli sviluppi e alle nuove e differenti direzioni in cui si è espressa l’arte plastica dopo quella affermazione .
Francesco Fossati: Sì, certo, se pensiamo all’istallazione come naturale sviluppo della scultura, ma se prendiamo in esame solo la scultura come la si intendeva allora, il discorso di Martini ha un senso, perché nello scorso secolo e nei primi anni di quello attuale la scultura ha cambiato le sue forme e soprattutto ha rinnovato i suoi materiali. Per cui se la analizziamo da un punto di vista linguistico (proprio come suggerisce Martini parlando di lingua morta) allora possiamo accorgerci che nulla è cambiato, cioè la scultura si riduce ancora ad un discorso di pieni e di vuoti, volumi, estrusioni, aggetti, buchi, ecc…
L’unico vero scarto da questo punto di vista lo ha generato Calder, il quale fu il primo a creare delle sculture al tempo stesso bidimensionali e a tutto tondo. Inversamente la pittura ha attinto molto dal linguaggio scultoreo, basti pensare al lavoro di Castellani.
Un ulteriore scarto linguistico lo ha effettuato la nuova generazione di artisti che , in simultanea in differenti parti del mondo, hanno iniziato ad utilizzare tecnologie magnetiche ed elettromagnetiche per far lievitare le sculture, avvicinando la scultura ad un oggetto virtuale pur nella fisicità delle sue forme, anche se questo scarto è ancora una volta a livello istallativo, non nella natura stessa della scultura, ma in qualche modo ne modifica la nostra percezione dell’oggetto.
Nella stessa direzione si muovono le tecnologie che ci permettono di fruire della cosiddetta realtà aumentata, ovvero la possibilità di vedere attraverso apparecchiature elettroniche degli oggetti che nella realtà non esistono o comunque non sono presenti in quel dato contesto spazio-temporale, così avviene la smaterializzazione della scultura e diversi artisti in tempi recenti si stanno muovendo in questa direzione.
GV: Veniamo al tuo lavoro. Come nascono queste tue ““sculture”” ? Ce ne puoi raccontare la genesi : è stata frutto di una ricerca con un materiale oggi abbastanza dimenticato o comunque poco usato dai giovani artisti o piuttosto il risultato ottenuto è frutto di una “scoperta” casuale?
FF: ““Sculture”” nasce all’interno della ricerca teorica che, come artista visivo, porto avanti da alcuni anni; un’indagine dei media artistici che si sviluppa attraverso diverse combinazioni dei linguaggi. Non sono un tecnico e i miei studi riguardo alla scultura sono stati limitati. Ricordo però di un professore, quando studiavo in Accademia, che mi disse “…con la creta puoi realizzare qualsiasi forma e di qualsiasi dimensione; l’unica cosa che non puoi fare è unire crete di due tipi diversi perché, quando essicano, si ritirano in percentuale differenti e si rompono”, quindi quando ho iniziato a immaginare delle pitture realizzate attraverso il linguaggio scultoreo ho pensato subito ad unire due o più crete diverse.
Ho scoperto poi che le affermazioni di quel professore non erano molto veritiere perché esistono due tecniche specifiche per unire crete di colore e impasto differente, una si chiama neriage e solitamente ha una applicazione solo a livello superficiale sui manufatti, l’altra è la marmorizzazione che può essere utilizzata a livello volumetrico ma il colore viene unito in maniera casuale: io cercavo invece un’applicazione che avesse un senso a livello volumetrico e una certa autonomia di forme , ed ho trovato il modo di combinare le due tecniche. Da questo momento ho iniziato a sperimentare, alla ricerca di una modalità per realizzare le mie opere.
Dopo una serie di tentativi, con qualche fallimento, penso di aver individuato il percorso che dovevo intraprendere quando ho visto una torta fatta dalla sorella della mia compagna: all’esterno molto semplice, ricoperta di cioccolato, ma appena tagliata, ha svelato al suo interno una scacchiera fatta dall’alternanza di due pan di spagna, uno normale e l’altro al cioccolato, e lì ho pensato che quella fosse la “sensazione” che volevo ottenere. La creta inoltre è un materiale povero, semplice e probabilmente il più antico utilizzato per realizzare delle sculture e quindi l’ho trovato perfetto per il mio progetto: il tentativo (inutile?) di rinnovare il linguaggio scultoreo attraverso il suo media più antico.
GV: Nella forma, con quelle “spaccature”, con quelle ferite, le tue terracotte riprendono una lezione e una “tradizione” che risale ormai all’inizio del secondo dopoguerra. Quali affinità e differenze ritrovi rispetto alle creazioni di quel periodo?
FF: Da un punto di vista formale queste opere rimandano immediatamente alle Sculture Spaziali di Lucio Fontana, anche se nella sua produzione il gesto creativo assume un ruolo di fondamentale importanza; inoltre la fisicità dei “buchi” e dei “tagli” prevale sull’aspetto cromatico generato solo dal materiale e dall’alternarsi di pieni e vuoti.
Sempre nel periodo storico a cui stiamo facendo riferimento mi vengono in mente le sculture in terracotta di Carlo Zauli, con grosse spaccature e le forme modellate solo in parte dalla mano dell’artista.
Facendo poi un balzo in avanti di qualche decennio, ci possiamo riferire alle sculture realizzate tra il 1984 e il ’94 dall’artista californiano Ken Price, per forma e dimensione ricordano le mie. Price inoltre ha sempre analizzato in modo attento l’uso del colore nelle sue sculture anche se in maniera diversa da come la intendo io oggi.
GV: Hai accennato ai richiami “storici” rispetto alla forma delle tue sculture. Considerato invece il lato “coloristico” del tuo lavoro con le terracotte e avvicinandoci ai nostri giorni, quali potrebbero essere, oppure quali sono stati (se ce ne sono stati) i tuoi “riferimenti” ovvero chi trovi quali tuoi antecedenti?
FF: Sono tanti gli artisti che lavorano con le arti plastiche che stimo; non so dire se qualcuno di loro intende la scultura e il colore nella stessa direzione che voglio analizzare con questo progetto, ma sicuramente mi affascinano molto le sculture in cartapesta di Franz West, recentemente scomparso, dove il colore crea un forte contrasto tra la percezione visiva e quella materiale; anche i lavori tridimensionali di Yaiyoi Kusama all’interno dei quali l’aspetto coloristico dei pois trasforma completamente la percezione che abbiamo dell’elemento tridimensionale, e ancora di più le sculture degli anni ’80 di Anish Kapoor, volumi geometrici complessi interamente coperti di pigmenti, ove il colore è fondamentale protagonista ma la plasticità è ancora l’elemento imprescindibile.
GV: Vi è anche tuttavia un coté pittorico che inserisce elementi plastici e tridimensionali nei quadri, quasi a trasformarli in sculture, ovvero rendendoli comunque “lavori” o opere differenti rispetto al semplice quadro.
FF: Esatto; è quello cui accennavo prima citando Castellani. A partire dai primi collage cubisti di Picasso e Braque, il modo di concepire la pittura è stato completamente rivoluzionato grazie all’inserimento di frammenti di realtà all’interno del quadro; negli anni ’60 si è arrivati addirittura all’annullamento del colore in favore degli elementi tridimensionali, mi riferisco in particolare agli Achrome di Manzoni e alle pitture monocrome con l’applicazione di spugne marine di Yves Klein . Gli esempi di artisti che hanno lavorato nella medesima direzione negli anni successivi sono moltissimi, ma non a caso cito Steven Parrino che, a partire dagli anni ’80, trasformò i suoi dipinti in opere tridimensionali, la ricerca di Angela de la Cruz che si muove nella stessa direzione, anche i dipinti di puro pigmento di Jason Martin hanno una forte valenza plastica.
GV: Nei nostri vari colloqui hai citato, parlando del tuo lavoro riferito a ““sculture”” , una pluralità di artisti, talvolta anche molto distanti tra loro; mi riferisco in particolare a Martin Kippenberger, Gleen Brown e addirittura hai fatto riferimento anche ad un’opera impalpabile come Nothing di Pipilotti Rist. In che modo questi artisti, o il loro lavoro, ti ha interessato ovvero ti ha influenzato o ispirato?
FF: A differenza dei precedenti quelli che hai appena citato sono artisti che mi interessano principalmente da un punto di vista teorico e non solo formale, pertanto per ognuno ci sarebbe bisogno di un discorso a parte, poiché si relazionano a questo mio progetto in maniera differente.
Di Kippenberger mi interessa principalmente la serie “Dear painter paint for me”; con queste opere l’artista tedesco ha riutilizzato la pittura come linguaggio espressivo-concettuale ed è quello che sto cercando di fare con la scultura. Per quanto riguarda Gleen Brown, mi riferisco in particolare alle sculture informi realizzate con pittura acrilica e olio che trovo un ottimo tentativo di coniugare pittura e scultura lasciando alla materia stessa la possibilità di definire la forma. Il lavoro di Pipilotti Rist mi interessa tutto perché il colore ricopre un ruolo centrale; in alcuni casi si potrebbe affermare che si sostituisce al contenuto; nello specifico di “Nothing” quello che mi interessa è la creazione di sculture talmente effimere che la forma è in continuo mutamento e movimento, una pelle di colore cangiante contiene una materia che nel momento in cui si libera da una forma definita è già pronta a svanire, si tratta inoltre di un lavoro ironicamente critico nei confronti degli artisti che riempiono le opere di concetti vacui.
GV: Perché ritieni che si possa parlare di innovazione attraverso delle opere realizzate con un media povero e antico come la terracotta?
FF: Concettualmente questo progetto si sviluppa in antitesi ad alcune teorie di Clement Greenberg, il quale sosteneva che per raggiungere determinati criteri di qualità estetica l’opera d’arte deve cercare di evitare la dipendenza da qualsiasi esperienza che non sia insita nella più letterale ed essenziale natura del suo mezzo. E’ innegabile che già tutte le maggiori esperienze del postmodernismo hanno cercato di scardinare e confutare le tesi di Greenberg, ma lo hanno fatto con un atteggiamento tipico delle avanguardie ossia osteggiando e opponendosi fortemente alla sua lettura critica, fino ad arrivare a censurarlo, ma quasi mai cercando di confrontarsi con teorie critiche di innegabile lucidità.
Quello che ho cercato di fare con questo progetto è quello di rileggere le teorie di Greenberg alla luce di due esperienze alle quali riconosco una particolare importanza : da una parte Post-Human e le teorie legate al tema dell’identità di Jeffry Deitch che nel 1992 hanno generato l’omonima mostra e dall’altra il “movimento” nato dalla presa di posizione dell’artista Miltos Manetas esplicitata nel testo websites are the art of our times, scritto tra il 2002 e il 2004.
““sculture”” infatti parla di identità, della sempre crescente necessità di modellare e plasmare l’aspetto esteriore tanto degli uomini quanto delle loro creature commerciali per essere meglio veicolate con l’ausilio degli odierni mezzi di comunicazione, così queste opere nascono attraverso un procedimento tecnico il quale impone nella fase terminale che le sculture vengano compresse, potendo definire così in modo puntuale la parte esteriore, ma allo stesso tempo trasformando in maniera incontrollabile la materia all’interno e dunque il disegno che viene svelato solo al momento del taglio del volume.
Pertanto il mio progetto cerca di analizzare con uno sguardo nuovo il tema dell’identità in relazione alla virtualità, ai new-media e alle nuove forme di comunicazione, ma lo fa attraverso un mezzo che non attiene alla tecnologia ma è piuttosto uno “strumento specifico” dell’arte.
GV: Ho notato che pur avendo un percorso artistico piuttosto breve, considerata anche la tua giovane età, hai già sperimentato differenti mezzi espressivi quali la fotografia, la pittura e adesso la scultura. Queste espressioni artistiche fanno tutte parte dei tuoi interessi, oppure stai sperimentando i differenti media alla “recherche” di quello che sarà il tuo approdo finale come precipuo mezzo espressivo?
FF: Tutti quelli che hai citato mi interessano e anche quelli che non hai citato come il video,la performance, l’istallazione, il disegno, il web, ecc…senza nessuna limitazione perché il centro della mia ricerca è il linguaggio e pertanto mi servo di tutti i mezzi che conosco per analizzarlo. Attualmente non so se in futuro ne sceglierò uno in particolare e quindi lavorerò solo con quello, ma ne dubito. Il mezzo è strumento che l’artista utilizza per dare forma alle sue idee ed io voglio trovare sempre il modo migliore per concretizzare le mie idee; non credo quindi che limitare il campo d’azione possa aiutare questo processo.
(Estratto da una serie di conversazioni, avvenute in diversi luoghi tra giugno e luglio 2012,
tra l’artista e Giorgio Viganò).
Francesco Fossati, #013 (dalla serie ""sculture""), 2012
terracotta, 18 x 12 x 18 cm
Olga Gambari - In\Colore
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- Pubblicato Lunedì, 13 Maggio 2013 20:30
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All’inizio la sensazione è di sprofondare nei colori, nel riverbero ottico creato dalle strisce che avvolgono le pareti della stanza. L’installazione di Francesco Fossati si stende sulla pelle del luogo espositivo, che perde consistenza e diventa meccanismo optical straniante, come se fessure di luce colorata si aprissero e facessero filtrare una dimensione parallela. Lame dipinte che vanno dal blu al verde, dal rosso all’arancione, nelle sette sfumature della rifrazione della luce.
Poi appaiono le tavole dipinte a olio, anse narrative, punti di sosta che costellano le bande colorate. In ognuna si apre una storia minimale, fatta di accenni, porzioni di visioni di architetture. Una pittura essenziale e monocroma, che è al tempo stesso veloce come segno e stesura eppure meditativa e analitica. Tutto il lavoro parte da un archivio fotografico raccolto in giro dall’artista, immagini trovate su riviste così come in internet, che raccontano la dimensione della cosiddetta hippy architecture, quella che comprende strutture abitative edificate con materiali di recupero o ricavate dall’ambiente naturale, bioarchitetture che si inseriscono nella natura con un approccio sia mimetico sia a basso impatto, ecologico. Il monocromo, che interviene su porzioni di quelle immagini estrapolate e stampate su fogli di carta poi trasportati su tavole di legno, fonde insieme elemento umano e naturale, anche se persone non ne appaiono mai direttamente. Sono le architetture a evocarle, a incarnarne l’essenza che le ha progettate e le abita, dichiarando idee e bisogni, quotidianità specifiche e uniche, in opposizione all’edilizia comune che crea spazi abitativi uguali per tutti, dove l’essere umano per forza si omologa, perdendo anche il suo rapporto con l’ambiente. Uno sradicamento che determina alienazione, che interrompe il rapporto vitale tra individuo e natura. Le piccole pitture di Fossati sono visioni lisergiche, che ricordano anche la grafica del videogioco in 3D: linguaggio asciutto e lineare, minimalista come certa scrittura americana, come Raymond Carver, fatta di niente, fatta di tutto. Ma anche in parte pop, legata alle immagini dei media, a un’appropriazione iconografica che, diversamente, fu di Andy Warhol e poi di Gerard Richter, con il suo Atlas, un archivio\atlante enorme, in progress di fotografie trovate e scattate, ritagli di giornali, tavole cromatiche, appunti. E di Richter si ritrova un’eco anche nel segno pittorico, in quell’iperrealismo “sfocato” reso tale sia dal tratto sia dal monocromo, che rende l’immagine visione, allucinazione. Dal colore più pieno e abbagliante della percezione iniziale, si passa a un’inconsapevole visione b\n : accade in una successiva elaborazione mentale, che rarefà e rende l’opera un disegno concettuale. Irreale e reale diventano memoria, emozione, appartenenza a un'altra dimensione.
Francesco Fossati, Hippy Architecture, 2010, installation view, wall painting and 37 elements mixed media on plywood
Simone Frangi - Non-specificity of medium
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- Pubblicato Lunedì, 13 Maggio 2013 08:45
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Il contenuto deve dissolversi a tal punto nella forma che l’opera d’arte non può ridursi, nella sua totalità o in una sua parte, ad altro che a se stessa.
Piattezza e consapevolezza come tappe progressive di uno sviluppo. E la conclusione della ricerca artistica intorno alla propria coscienza.
Due mastodontici obiettivi polemici, di cui Francesco Fossati cerca di mangiucchiare, silenziosamente e tenacemente, le fondamenta.
Il terreno d’avvio della ricerca è storiografico: la critica d’arte ha sempre assegnato le preoccupazioni teoriche della scultura ad un dominio diverso, ed addirittura ostile, a quelle della pittura. E anche nell’eventualità in cui abbia lanciato una lettura sincretica delle corrispondenze tra i codici della pittura e i codici della scultura, ha sempre e solo intravisto nella pittura la lungimiranza di aprirsi all’integrazione di volumi aggettanti nella sua superficie. O alla riconversione, tramite l’a-cromia, del supporto pittorico in oggetto plastico.
In una sezione della sua personale, Fossati mette in atto una pratica di ceramica “inconforme”, una tecnica intermedia che gioca a tratti con la piattezza del neriage e che fa subentrare la marmorizzazione come implemento volumetrico. Un lavoro scultoreo che si mostra debordante e solidale ad ogni altra regione della produzione dell’artista: se l’imperativo modernista stabilisce infatti che ogni disciplina deve restare nei limiti del proprio medium, Fossati prevede usurpazioni di prerogative e vicendevoli invasioni di campo.
La serie di ceramiche moltiplica un medesimo esercizio teorico in 9 esemplari, testando un approccio “iconico” ai volumi: fare una scultura legata ai presupporti della pittura e del disegno, alla loro piattezza, alla loro superficialità. Per parlare del mezzo come medietà., elemento impuro ed intermedio, come struttura di comunicazione e di transito: come vero e proprio banco di prova della questione linguistica in arte.
La scelta del materiale di produzione cade sulla creta, elemento primo, didascalico e tautologico della scultura. Un incipit storicizzato, dogmatico, talmente esausto che deve senza dubbio celare altre possibilità d’uso non indagate. Ed è questo in “piegarsi” al mezzo ed alla sua inerzia che le ceramiche di Fossati riqualificano l’errore come esordio di una nuova narratività per la pratica scultorea. Il tassello mancante che questa serie estrae dal corpo della creta è la sua mansuetudine accoppiata all’imprevedibilità. Come a voler assecondare quella strana vigilanza di cui è dotata la materia prima, la padronanza tecnica dei mezzi di produzione arretra mentre la regola della deformazione incontrollabile avanza.
La preparazione delle sculture implica, all’origine, una componente fisica molto forte, che si ritrae progressivamente, che non filtra nella soluzione finale: la soppressione delle tracce di tutti i processi intermedi (scagliare le terre al suolo per fare aderire le due paste utilizzate) produce climax decrescente, che stempera l’incisività della forza nella nettezza della precisione. Le sculture si presentano in principio come innocui panetti, violati, prima della loro cottura, da fenditure decise. Il passaggio al forno completa lo svuotamento e la dischiusione, aprendo i volumi ad una bidimensionalità ed una superficialità pittoriche ed innescando un’oscillazione d’identità.
Mediando tra l’autocensura del modernismo e la sfacciataggine processuale dell’anti-form, la scultura di Fossati vive di un lavoro che appare sin da subito “gentile”. Che seziona per curiosità, senza velleità chirurgiche, ma con un piglio anatomico, ed indaga l’interno basandosi su ciò che si mostra all’esterno. Prima comprimere. Poi sezionare. Segni delle dita per sventrare. Tagli verticali ed orizzontali per mostrare le viscere.
Francesco Fossati, ""sculture"", 2012, installation view at Galleria Cart, Monza, different kind of terracotta